27.4.09

Foggia: a Pagani abbiamo messo il punto. È finita. Addio playoff.

I sogni non costano niente, sò come la speranza ma mai abbastanza realmente.

Cosa m’aspetto, non lo so. Vorrei una squadra sconsiderata, grintosa, che a testa bassa buchi la muraglia paganese. Vorrei l’anima dei miei giocatori, su un piatto di ceramica grezza. La determinazione, la concentrazione, il carattere. Più che la tecnica. Non siamo a novembre, fortunatamente, non dobbiamo sbucciarci le ginocchia sul metodo, sugli schemi, sul bel gesto. Gioco o non gioco, oggi m’aspetto una battaglia. Mentre una parte di me si cruccia che la Paganese non sia già salva. È un difetto, un pezzo di serie dell’Italianità, probabilmente. Non mi va di barare, sono allergico a certe cose, nella vita e nello sport. Nello sport e, di conseguenza, nella vita. Eppure, quando Antonio m’ha detto: “Foggia e Paganese sono due società dai rapporti stretti e cordiali”, quella parte di me ha socchiuso gli occhi. Se oggi vinciamo 3 a 0, quel famoso 3 a 0 che non viene mai, magari contro una Paganese rinunciataria, avrò tempo di deludermi. Ma solo dopo il novantesimo. Coraggio, grinta, cattiveria. Ma se dovesse giungere l’aiutino, come a Domenica In, stavolta me lo prenderei. È un po’ come la fila all’Ipercoop. È una domenica immorale, senza principi. Sistemo le sedie, il divano, che ad angolo retto sotto la tv sembra ritagliare lo spazio di un privè. In diretta da Pagani ci sono i paganesi che montano gli striscioni in curva. Una mezza Diana rossa. Le squadre sono già pronte per il via. Sospiro profondamente.

Oggi abbiamo messo il punto. È finita. Addio playoff.

Aspettavano da mesi questo momento, come certi giornalisti attendono il terremoto per contrirsi. Manca un attaccante, Novelli è un poveraccio, Salgado è inguardabile. La disamina tecnica slitta verso il crinale del proto-martirio. Tafazzi insegna dove colpire, dove colpirsi.

Certo è che il Foggia in campo a Pagani smuove le viscere e spinge al vandalismo, al vilipendio, alla violenza gratuita. Finanche al bullismo. Dal banco del bar, guardo Angelo che fissa lo schermo. Sono passati venticinque minuti dal fischio d’inizio. Non abbiamo mai tirato in porta, non ci siamo mai resi pericolosi, non abbiamo sfruttato gli spazi, né fatto nulla per crearne. Il carattere vaticinato è un sogno di gioventù. Questi maledetti sono molli, fiacchi, svogliati. A noialtri basta uno sguardo incrociato per comprendere come andrà a finire. Zero a zero, a meno che un tiraccio paganese non finisca alle spalle di Bremec, che di suo ha già salvato il risultato in un paio d’occasioni. So che Angelo sta per dire che questa è una finale e questa squadra non merita neppure di giocarseli, i playoff. Lo so perché l’ha già detto per Arezzo. Ed io gli ho dato torto. Forse perché lui la partita di Arezzo l’ha vista in tv, come questa, e può comparare le prestazioni. Ad Arezzo non abbiamo giocato come una finale, e sia. Ma, conti alla mano, non lo era. Il pari, che eravamo riusciti ad imporre e difendere in dieci, sfumato a nove dal termine, oggi sarebbe oro colato. Con quel punto, e soprattutto con due in meno ai toscani, oggi saremmo appaiati al quinto posto. Con l’Arezzo che, oltretutto, sta perdendo a Benevento. Persino col pari che invita al reato di Pagani, saremmo nei playoff. Invece. Angelo sbuffa. Poi dice che questa è una finale, puttana la miseria, e non si può giocare così una finale. Stavolta ha ragione, puttana la miseria. E non rispondo.

Oggi abbiamo messo il punto. È finita. Addio playoff.

Immaginiamo cosa diranno i lussuriosi dispensatori di sciagure, i festanti speaker delle catastrofi annunciate. Lo anticipiamo mentre consumiamo aria e polmoni, all’ombra degli alberi spogli, sotto una pioggia sottile e fredda. Ma non abbiamo la forza morale di imporre un cambio di passo, virtuali come siamo. Fossimo al campo, adesso, potremmo afferrare la squadra dal colletto, scuoterla fino a farle perdere i sensi. Tirate fuori le palle, avremmo gridato. E loro ci avrebbero osservato, a metà tra lo spavento e il dovere, come a Potenza. E, per dio, avrebbero dovuto sentire il nostro fiato sul collo. Un messaggio nella bottiglia, a ciascuno di loro: Gioca, mettetici il cuore e gli attributi, come facciamo noi. Altrimenti vi speroniamo il pullman. Invece nulla. L’Osservatorio ha deciso che dobbiamo guardarci in faccia, fissare nello sguardo altrui l’inevitabile impotenza. Sappiamo come finirà. Zero a zero. E non possiamo fare nulla per impedirlo. È frustrante. E lo sarà ancora di più quando dovremo sorbirci le lezioni tecniche degli appassionati improvvisati, buoni solo a fare il controcanto alle sconfitte. O alle mezze sconfitte.

Zero a zero. Con l’Arezzo sconfitto a Benevento e la Cavese caduta a Taranto. Costretti a crederci. Perché a due punti dal traguardo, con tre partite da giocare, non si può fare finta di niente. Non si può guardare dall’altra parte e fingere che la cosa non ci riguardi. Una settimana da scalare come un angolo acuto che si protrae nello spazio. Ancora riti, gestualità e sbuffi di fumo. Domenica saremo di nuovo uno accanto all’altro, a lanciare il terzultimo assalto alla speranza.

Basta un niente e tutto salta, Tutto tende all'essere distrutto, Tutto cambia.
Una fenice risorge dalla cenere, Torna al fuoco per quanto tu la possa uccidere.

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